sabato 28 novembre 2009

La cantina del rock 105: Gun Club




Di molti dei gruppi che amo non vedrò mai un concerto, non avrò la percezione dei suoni che si scaricano sul mio corpo o di una scarica di chitarra elettrica che mi scoppia nel cervello, non sarò tra il pubblico travolto da una bolgia di emozioni...
Non ho vissuto musicalmente gli anni '80 e non ero neanche nato quando uscì Fire of Love, mentre Miami è stato registrato che avevo pochi mesi.
Eppure ascolto i Gun Club come se fossero un gruppo che registra e suona adesso, non 25 anni fa. Forse perché il loro sound mi suona recente, mi suona attuale.
Contemporaneo.
I Gun Club nascono a Los Angeles alla fine degli anni '70 da quella mente folle di Jeffrey Lee Pierce che, radunando periodicamente e non senza difficoltà compagni di viaggio che puntualmente lo avrebbero poi abbandonato o che lui avrebbe allontanato senza una ragione, intraprende una folle e deragliante corsa, fatta di concerti, sbandate, cadute, kilometri, contraddizioni insanabili e melodie lancinanti.
Jeffrey Lee era annientato dalla bellezza del blues, dal delta del Mississippi e da quella che viene chiamata in genere tradizione musicale americana. A chi lo accompagnò nel viaggio per le autostrade della musica, aggiunse lo spirito punk che andava chiarendosi da qualche anno come un'istanza necessaria per approdare a qualcosa di nuovo e nello stesso tempo quanto mai vivo.
Lo hanno chiamato spesso punk blues: forse sarebbe meglio parlare di suono americano. Avere un repertorio, una tradizione che si è tramandata prima oralmente e poi su disco e viverla quotidianamente filtrandola attraverso il proprio vissuto e la propria esperienza.
Il blues, il country, il rock'n'roll, la psichedelia e altre mille rivoli centrifugati nel punk e ritrasmessi nel presente, come se fosse la cosà più semplice e la strada maestra da seguire.
Si narra che Jeffrey Lee abbia ereditato il rapporto con il diavolo da ben noti bluesman prima di loro e che assieme a Kid Congo Powers (Cramps, Nick Cave and Bad Seeds tra gli altri), abbia scritto le più belle pagine di blues bianco, sta di fatto che il cantante dei Gun Club è stato per lungo periodo l'erede e il propiziatore di questo fiume in piena che è il suono americano. Non facendo niente per esserlo, anzi sbagliando sempre tutto ciò che poteva sbagliare, senza redenzione nè prospettiva, ma capace di rinascere e mettere in musica tutto il suo tormento.
La storia dei Gun Club viene qui ripercorsa attraverso la loro musica, ascoltabile e percorribile senza nessuna pretesa di esaustività attraverso canzoni che non ne vogliono sapere di invecchiare.
La cantina del rock, che per coinvolgimenti personali si è già occupata dei Gun Club, torna a farlo per una puntata tematica dedicata alla band californiana, come atto d'amore incondizionato verso Jeffrey Lee e soci.
Buon ascolto

Bob


 


martedì 24 novembre 2009

La parola a Lev: Il blues



Spazio al primo intervento interamente pensato e scritto da un amico.
Lev, che qui si vede in una foto a New Orleans scattata lo scorso agosto, riflette a proposito del blues, delle sue origini e delle sue derivazioni.
Meraviglioso blues, fiume sui cui margini fiorisce rigogliosa la musica del secolo passato e su cui speriamo vada a insediarsi quella che verrà.
Quello che segue non è l'articolo di un critico nè ha pretese di esaustività. Si tratta solo un punto di vista sulla vicenda, un punto di vista documentato ma tuttavia personale.

Quando i Beatles registrarono "Roll Over Beethoven", non fu soltanto Beethoven ad essere chiamato in causa, ma soprattutto l'autore Chuck Berry.
Se i Rolling Stones suonavano "Confession the Blues", stavano confessando in realtà l'influenza di Walter Brown e BB. King, e quando gli Animals cantavano di un "Big Boss Man" si riferivano a Jimmy Reed.
Il "Blues in the Bottle" dei Lovin' Spoonful era di Lightnin Hopkins, mentre fu un nero del Mississippi, Bukka White, ad ispirare a Bob Dylan la sua "Fixin to Die".
Questo brevi considerazioni riguardano il blues e la storia di una minoranza segregata divenuta ispiratrice della musica R'n'R' attraverso la società intera.
Quando i cantanti di blues potevano essere ascoltati in qualsiasi cortile del Sud, e i portici delle botteghe e le capanne delle piantagioni risuonavano dei suoni pigri delle chitarre, erano pochi quelli che si soffermavano a considerare la natura di quella musica.
I blues singers facevano parte del panorama circostante, e non venivano notati più di quanto lo fossero i muli che trascinavano i carri di cotone sgranato.
Ma questo non deve stupire, dal momento in cui è nella natura della musica avere rapporti strettissimi con i prodotti del lavoro dell'uomo e non poter essere separata dalle forme del vivere quotidiano.
Basti pensare alla quantità di bluesmen ciechi che hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia del blues, impossibilitati a guadagnarsi il pane maneggiando una zappa o un'aratro, ricorrevano alla musica come mezzo di sopravvivenza.
Di quei tempi ci sono stati trasmessi solo alcuni frammenti occasionali.
Tendenzialmente il blues veniva guardato con ostilità considerato una degenerazione; nessuno si diede la briga di considerare questa "musica", non ci sono testimoni se non gli stessi blues singers.
Alcuni vedono il blues come una musica di protesta certi altri come un compiacimento di autocommiserazione; altri ne considerano fondamentalmente l'influenza che ha avuto per l'evolversi del jazz e della musica rock.
Da qualsiasi punto di vista lo si consideri, il blues è contemporaneamente uno stato d'animo e una musica che gli da voce.
E' il lamento di chi è abbandonato, un grido d'indipendenza, l'impotenza dell'uomo nel pieno delle sue forze, la rabbia del frustrato, il riso amaro del fatalista.
E' l'agonia dell'indecisione, la disperazione del disoccupato, l'angoscia di chi è stato spogliato di tutto, è lo spirito caustico del cinico.
Il blues è l'espressione privata dell'individuo che trova nella musica un veicolo per i propri sentimenti, la musica di una frangia ristretta all'interno di un gruppo isolato
Ovviamente il blues era anche divertimento, musica per bere e ballare per sfogarsi dopo le fatiche del duro lavoro settimanale.
La cosa certa è che il blues trova i suoi rappresentanti in seno a una comunità popolare, sia nel profondo sud contadino, che nei ghetti congestionati di una città industriale.
Il blues è il canto di chi s'improvvisa chitarrista in un retrobottega, il frastuono di un locale fumoso di periferia, lo show di una compagnia ambulante..il blues è tutte queste cose tutta questa gente e molto di più ma soprattutto l'ispirazione di un uomo apprezzato solo dalla sua comunità, e a volte forse solo da se stesso.
Quindi la storia del blues è la storia di donne e uomini umili, oscuri, modesti, è la storia di nomi di cui non rimane nulla se non qualche minuto di registrazione...la storia di uomini "veri" e di qualcosa che non si può vendere e comprare per niente e nessuno.

Lev

giovedì 19 novembre 2009

La cantina del rock



La cantina del rock è un programma radio di musica rock'n'roll – garage, punk, surf e psichedelica – andato in onda per la prima volta il 26 ottobre del 2006 sui 99.4 mhz di Radio Facoltà di Frequenza a Siena.
Ogni settimana, inizialmente il giovedì e poi il martedì, eravamo in diretta con puntate di un'ora, sparando musica a tutto volume e chiacchierando al telefono con gruppi, etichette discografiche, organizzatori di concerti e festival, giornalisti o semplici appassionati.
Fu chiara dall'inizio la natura underground della cosa: dare spazio a realtà al di fuori del carrozzone chiamato musica indipendente, parlare di autoproduzione e di autodistribuzione, riscoprire gruppi underground del passato, chiacchierare con i protagonisti della musica, rifiutando il concetto di musicista/artista da palco e valorizzando le esperienze dal basso, poco considerate mediaticamente, ma di grande spessore musicale.
In una sola espressione, Do-it-Yourself.
Era ottobre del 2006 e stavo scrivendo la tesi di laurea, suonavo il basso negli Ultra Twist e bazzicavo la radio da qualche anno. A Siena come sempre arrivava l'inverno, come sempre c'era quella umidità che se ne va ad aprile, come sempre non c'era un cazzo da fare la sera.
Pensammo a un programma che sarebbe andato fino all'estate del 2007. Io andavo in onda e ululavo dai microfoni della radio, Lev faceva i manifesti delle puntate. Insieme prendevamo contatti, insieme, con un registratore a cassetta più morto che vivo, andavamo ai concerti a intervistare i gruppi che passavano per la Toscana.
Ogni puntata, veniva registrata, postata sul myspace e archiviata sul sito, con la possibilità di scaricarsela e portarsela dietro. La cantina diventava una radiozine, che al posto della scrittura, dell'inchiostro e dell'impaginazione, diffondeva musica, veicolava una cultura, parlava e documentava attraverso un microfono, un mixer, l'aria, la rete.
Nel febbraio del 2009, dopo 103 puntate andate in onda, decine di ore di musica, interviste, concerti e festival seguiti, moltissimi organizzati a Siena, la Cantina ha sospeso le trasmissioni.
Non senza una rabbia enorme.
L'Università di Siena, dimostrando una miopia degna solo di una istituzione capace di dilapidare un patrimonio di anni ed esperienze, ha chiuso Facoltà di Frequenza con il pretesto di un trasloco degli studi della radio. Un trasloco che di fatto è rimasto insabbiato e che crea l'anomalia per cui una radio non c'è, ma continua a trasmettere musica senza più programmi e senza più persone.
Ma lasciamo perdere.
Ci siamo fermati e molte cose sono cambiate nel frattempo.
Sono passati tre anni da quel primo giorno di ottobre, gli Ultra Twist non esistono più,
io mi sono laureato e non vivo più a Siena.
In questi giorni, ma la cosa era nell'aria da un po' di tempo, abbiamo deciso di ricominciare a mandare rock'n'roll e a documentare tutto ciò che si agita dal basso e che viene fuori con concerti, 7 pollici, cd autoprodotti, cassette e quant'altro.
Per il momento la Cantina andrà solo in rete e lo studio della radio sarà composto da un portatile, un microfono, una scheda audio e un giradischi. Le puntate saranno ascoltabili e scaricabili dal myspace e dal sito, dove sarà possibile portare via tutta la vecchia programmazione andata in onda, ma contiamo in breve di ricominciare una nuova avventura in FM.
Intanto è disponibile la puntata del ritorno, la numero 104, ascoltabile direttamente da qui.




mercoledì 11 novembre 2009

La mia America



Lo scorso mese di agosto ho percorso gli Stati Uniti da una costa all'altra, in tour con i miei Ultra Twist. Stipati In un minivan da otto posti, con i ragazzi californiani dei Pipsqueak, abbiamo viaggiato per più di sedicimila km da San Francisco a New York con ritorno nella Bay Area, suonando tutte le sere e spingendoci nel cuore dell'America. Pochi giorni dopo essere rientrato, sollecitato dal mio grande amico Joel Weickegnant, ho scritto quanto segue sulla percezione del vasto spazio americano visto con gli occhi di un europeo.


La prima cosa che colpisce è la distanza. Se vieni dal Vecchio Continente sai che non puoi fare che qualche centinaio di km perché cambi tutto: lingua, cartelli stradali, talvolta anche credi, tradizioni e usanze. Fino a qualche anno fa trovavi le guardie ai confini e la tua moneta non valeva più nulla oltre quella barriera chiamata dogana. Succede ancora in alcuni posti.
Qui la strada è dritta, perennemente dritta. Cambiano gli Stati della Confederazione e i fusi orari, ad Atlanta si fa giorno e a LA è notte fonda. La strada no. Sei sulla I-10 e per quel che può sembrare puoi rimanerci anche dieci giorni, senza avvertire cambiamenti, solo andando dritto, seguendo la scansione delle miglia che si azzerano a ogni cambiamento di Stato.
In un giorno e mezzo copriamo tre o quattro volte la lunghezza della superficie dell’Italia a bordo di uno Chevrolet Astro del ’99, un miracolo dell’industria automobilistica che ci farà percorrere sedicimila km in un mese, un minivan oscenamente carico di persone, bagagli, sogni che diventano obiettivi ogni giorno di più.
Già, perché se sei Italiano sogni l’America. La conosci da sempre e non ci sei mai stato. Sin da bambino ne respiri la cultura: sei inondato dalla musica, dal cinema, dalla letteratura e crescendo te ne nutri e li interiorizzi. Aspetti nobili questi, a cui affiancare le brutture importate, dal centro commerciale - ma che cazzo ti serve se hai un centro storico e una piazza dove incontrare la gente? - a McDonald e a diavolerie di questo genere.
Si ma l’America la sogni, sogni i taxi gialli di New York, la statua della Libertà, i grattacieli, il West con gli Indiani, l’Oceano e il surf, le ragazze così come le hai viste in Tv. E soprattutto sogni che là si fa fortuna, si fanno i soldi. Ed hai almeno un parente, qualcuno che magari si chiama proprio come te e 100 anni prima è arrivato su una nave ed è diventato ricchissimo.
Sogni le città e a un certo punto esci da un’autostrada e ti ci ritrovi dentro, morto di stanchezza ma con gli occhi curiosi di un bambino. E gli Americani sono Americani in California e a New Orleans, e parlano più o meno la stessa lingua a tremila miglia di distanza, hanno lo stesso presidente, problemi simili – la crisi che si mangia il lavoro – e le stesse grandi paure, un tessuto emotivo che li accomuna e che li rende orgogliosamente Americani.
Poi c’è il mito della strada, del vento e dei paesaggi.
Tutto vero.
In Europa la strada è una terribile seccatura, una perdita di tempo necessaria per arrivare in un posto, vedere una città, visitare un museo. Qui i posti da raggiungere per i concerti sono troppo lontani e per non perdere la speranza vivi il tuo percorso come una continua fonte di attrazione, uno stimolo per gli occhi e per la mente, un modo per ascoltare buona musica, per riflettere e per cercare di comprendere i tuoi compagni di viaggio, che per un mese fileranno diritto nel loro inglese di Orange County, senza preoccuparsi se tu capisca o meno. Meglio così, l’italiano tornerà a casa fiero delle sue conquiste linguistiche guadagnate sul campo!
Ma torniamo a noi
Miglia e miglia per questo che è il sistema nervoso dell’America, con le sue arterie, le sue vene e i suoi capillari, formati dalle freeways, dalle highways e dalle routes, che ti portano sempre più lontano, ma sempre immerso in spazi sconfinati, diversi e irresistibili: il deserto, i canyons, l’azzurro del cielo a contrastare l’ocra e il marrone del terreno, la sterminata profondità di campo dei tramonti. E poi le foreste a perdita d’occhio, in cui la strada si è ritagliata un piccolo spazio in un immenso polmone verde.
A volte sbagli, fidandoti troppo della mappa, e ti perdi tra le montagne e un fiume ti accompagna inesorabilmente. Valichi riserve indiane e antichi villaggi di minatori da qualche parte in Idaho all’alba e ti sembra che non tornerai mai più da là, girando all’infinito in quei paradisi senza tempo.
Invece a un certo punto la strada torna ad allargarsi, ti porta a correre per poi morire sulla costa Ovest. E in un pomeriggio di San Francisco senza foschia, sulle Twin Peaks, mentre il vento del Pacifico ti taglia in due e la città si distende nella Baia, realizzi che tu in quel sistema nervoso vi hai viaggiato attraverso, nutrendoti per due volte da una costa all’altra di quell’ebbrezza quotidiana che ti ha portato verso posti, facce, concerti così intensi che fai fatica ad analizzarli singolarmente ma che sono un tutt’uno con la tua pelle e fanno parte ora di quel vasto bagaglio di vite vissute, percorsi, incidenti, sogni e illusioni che gli uomini chiamano esperienza.

venerdì 6 novembre 2009

Benvenuti nel mio blog!!


Dopo anni passati a disperdere nell'etere parole & rock'n'roll dai microfoni di Radio Facoltà di Frequenza, e nella spasmodica attesa di ricominciare a farlo, ho deciso di avere uno spazio dove parlare liberamente di tutto ciò che mi viene in mente o che mi colpisce.

E' una decisione che arriva dopo molto pensare. Interrogativi angoscianti ritardavano questo momento. E' giusto che un logorroico insostenibile come il sottoscritto abbia un blog senza rischiare di intasarlo di discorsi? Può un soggetto abituato alla sonniloquenza più accanita, manifestata talvolta in lingue note e molto più spesso in farfugli senza senso, avere la possibilità di scrivere ciò che gli passa per la testa, nell'ordine di pensieri che non decollino in digressioni allucinanti...
dov'ero?
mi sono perso
Ah no!
Eccola. Non c'è pericolo, mi sono detto.
Tenere un blog è un'operazione che richiede tempo e lo starsene appollaiati sul pc, evitando o ritardando birre, schitarrate, magnate colossali, concerti passeggiate e altre milionate di cose.
Avrà per questo una parte non preponderante sul mio tempo.
Parlerò delle mie passioni, di musica, viaggi, miti, del Bari e delle cose che mi fanno incazzare di brutto senza mediazioni e raccoglierò pareri, commenti e suggerimenti di amici, conoscenti e perfetti sconosciuti.
Parlerò di radio e di rock'n'roll, di concerti e dischi e di tutta la musica che mi accende una passione.

Rock on!