martedì 29 dicembre 2009

Un anno di viaggi e musica




Si chiude un anno in cui ho percorso migliaia e migliaia di km in tutti i modi possibili e immaginabili: treno, aereo, strade e via discorrendo. Non ultimo con la mente. Voglio riassumerlo attraverso concerti che ho visto in giro e che mi sono rimasti cuciti sulla pelle, senza dilungarmi eccessivamente in descrizioni di un periodo così bello e complesso.
Non seguo un ordine gerarchico, anche perché cambiano parecchio i generi musicali e gli artisti.
Il 2009 me lo voglio ricordare così…



Londra, Royal Festival Hall, 20 giugno
CHARLIE HADEN LIBERATION MUSIC ORCHESTRA

Sono a Londra per la seconda volta in pochi mesi. Prima di partire, spulciando in rete in cerca di eventi e concerti, scopro tra le altre cose un festival spettacolare organizzato da Ornette Coleman. Si tiene a Southbank, alla Royal Festival Hall. Ci sono almeno una decina di concerti a cui mi piacerebbe assistere, ma salta agli occhi un nome: Charlie Haden, per la quarta volta in quarant’anni ha riunito la Liberation Music Orchestra in occasione del festival.
Il concerto va che è una bellezza: una quindicina di musicisti free jazz diretti da Carla Bley, altro mito vivente. La musica, grazie anche all’acustica perfetta, arriva direttamente in profondità senza mediazioni.
Memorabile l’arrivo sul palco di Robert Wyatt con una tromba, a portare il concerto al suo apice: Song for Che, straziante ed emozionante marcia funebre, dedicata da Haden a Che Guevara morto da pochi anni. Siamo nel 1969.
Alla fine del concerto compare anche Ornette sul palco per un lungo abbraccio con Charlie Haden, che ringrazia il pubblico per avere “grandi orecchie per ascoltare la sua musica”.
Sembra di aver vissuto in un sogno per quasi tre ore.
Invece per fortuna è tutto vero…


Arezzo, Piazza Libertà, 1 luglio
PATTI SMITH

E’ l’ultimo mese prima di lasciare Siena, dopo anni intensi vissuti sempre a tutta velocità. Decido di andare al concerto all’ultimo momento insieme a quattro splendide amiche, quattro splendide amanti della sacerdotessa rock.
Accompagnata dal fido Lenny Kaye (che spettacolo sentirlo suonare) e da qualche membro della famiglia, Patti viaggia su sonorità acustiche, ripercorrendo a scossoni e salti trent’anni e passa di carriera.
Non c’è mai un momento per tirare il fiato e il finale è con “Gloria”, il pubblico in piedi fin sotto al palco e un concerto che non mi sarei mai aspettato così vibrante.
Serata meravigliosa, una delle ultime nell’amata Toscana.


Madrid, Sala Sol. 3 luglio
THE GORIES + OBLIVIANS

Sono passati solo due giorni e sono a Madrid, per suonare con i miei Ultra Twist il giorno successivo dagli amici del bar La Buena, a Malasaña. La sera del venerdì andiamo tutti insieme a vedere le due band riformate e in tour insieme. La Sala Sol è spettacolare, un vecchio salone da ballo d’altri tempi, convertito al rock’n’roll, con il palco ad angolo su una scalinata di tre gradini. Cominciano gli Oblivians e sai già che è una di quelle serate in cui il sudore ti esploderà addosso. Il loro set è una bella mazzata, l’atmosfera si scalda parecchio. Ma sono i Gories a far decollare per un’ora la gente subito sotto al palco, che più che pogare fluttua nell’aria stringendosi, ballando e sudando parecchio.
Che concerto!
E che città!
Ho suonato il giorno dopo, per la terza volta in meno di un anno, e viaggiato in lungo e in largo per una settimana in compagnia della mia Nico, salutando e riabbracciando di volta in volta vecchi amici. Una bella quantità di posti dove andare per concerti e tantissima bella musica. E mi dicono che negli ultimi anni, la situazione si sia un bel po’ affievolita. Difficile da crederci.


San Francisco, Rickshaw club, 29 agosto
DIRTBOMBS + TY SEGALL

A fine agosto, dopo aver attraversato due volte gli Stati Uniti in furgone e aver suonato quasi tutte le sere, arriviamo a San Francisco, tornando così nella città da cui eravamo partiti un mese prima. Mi sento leggero, dopo sedicimila km di paesaggi, persone, concerti e tantissime nuove esperienze.
La penultima notte d’America andiamo a vedere i Dirtbombs di Mick Collins, visto coi Gories a luglio, e viviamo un altro concerto sotto il palco in mezzo alla gente e con tonnellate di watt sporchi e cattivi rovesciati addosso dagli amplificatori e dai colpi mortali delle due batterie. Prima l’ottimo Ty Segall, che spero di strada ne faccia veramente tanta.
Quanto a me, termina un viaggio poetico e disperato, di quelli che ti danno una energia enorme per i mesi a venire.
E infatti sono ancora in botta


Lisbona, Centro Cultural de Belem, 1 novembre
STEVE REICH

Ritorno a Lisboa dopo cinque anni. Siamo a fine ottobre e nulla sembra essere cambiato, rispetto a quando ci ho vissuto. O quasi. La città se la dorme sulle sue colline dispensando poesie. Ne ripercorro le strade, come se mancassi da una settimana, mi arrampico per i suoi quartieri, come se un po’ mi appartenessero.
E forse è anche così.
Con Nico passeggiamo per kilometri sulla spiaggia di Costa da Caparica in un pomeriggio di sole caldo e ci tuffiamo tra l’odore di sardinhas arrosto dei vicoli e il vociare della gente. La sera del primo novembre andiamo a vedere Steve Reich che, da padrone assoluto del suono concreto e minimale, parte dalla celeberrima Clapping Music e se ne va a zonzo per alcune delle sue opere più significative, regalando a chi si trova al centro culturale emozioni senza sosta.


ALTRI CONCERTI

Ce ne sarebbero un sacco ancora da annotare qui.
Ma voglio ricordare i concerti organizzati a Siena con il mio amico Lev e tutta la combriccola di Villa Serena. Su tutti il Primo Maggio in campagna a Quercegrossa con nove gruppi a suonare dal pomeriggio a notte inoltrata, i concerti di Movie Star Junkies e Feeling of Love nella cantina dei Propositivi dietro Piazza del Campo, il concerto dei B-Back nella contrada dell’Onda, i Female Troubles, i Capputtini i’Lignu alla Facoltà di Lettere, i Thee Verduns. Tutte giornate, passate a caricare strumenti e amplificatori, cucinare, vivere e suonare.
E i Fleshtones al Sonar a Colle Val d'Elsa!

E poi il tour per l’Europa, quando abbiamo vagato in Ungheria per tre giorni, senza arrivare mai a Belgrado né a Zagabria. Pazienza!
E, come sempre si concludono questi excursus, speriamo di fare meglio per l’anno che viene!

lunedì 21 dicembre 2009

La cantina del rock 108: Mississippi Delta Blues



Su queste pagine abbiamo già parlato di blues e senz'altro accadrà ancora.
Non se ne può fare a meno.
In compagnia del mio amico Massimino ci siamo fatti un'ora scarsa risalendo il Mississippi con tanta musica bella sporca nei testi, nella musica, nelle registrazioni.
Abbiamo cercato di raccontare la vicenda e i protagonisti, dovendo ahimè fare una selezione spietata per ragioni di tempo di quella che è la musica del diavolo, che pare proprio in persona abbia avuto a che fare con il signor Robert Johnson.
Da Big Bill Broonzy, ai vari cantori ciechi e vagabondi per le strade d'America (Willie Johnson, Willie McTell), alla Cocaine che trasuda feeling di Jay Abner, passando per la spledida voce femminile di Elizabeth Cotten, la slide guitar di Mississippi Fred McDowell, fino a San Francisco (Bay Blues) di Jesse Fuller.
Mississippi John Hurt canta di Stack O'Lee, il primo gangster nero e Charlie Patton i suoi blues ubriachi.  
La puntata si conclude con "The house of the rising sun", il bordello di New Orleans cantato da Leadbelly.

venerdì 11 dicembre 2009

La cantina del rock 107: R'n'R Terrorists







Recuperare lo spirito del blues, andando a fondo della tradizione musicale. Appropriarsi di un repertorio collettivo, personalizzandolo e utilizzandolo di volta in volta come fonte di espressione che, partendo da quei tre accordi, riesce ad essere sempre nuova.
La musica dei R'n'R Terrorists non sente compromessi: parte dalle radici campagnole del suono, vissute con attitudine punk, e se ne va a spasso per la sua strada, prendendo di volta in volta ciò che le serve per continuare il viaggio. O, per meglio dire, rubando.
"Stolen blues" è una raccolta di dodici blues "rubati, storpiati e condivisi", come si legge sulle note di copertina. Niente di più vero. Nessuna pretesa di originalità, nessuna ricostruzione filologica.
Unicamente la voglia di suonare, esprimere in una esplosione di chitarre slide, voci, urla, armonica e percussioni un qualcosa di personale che appartiene un pò a tutti.
Tantevvero che il gruppo, per le canzoni del disco, cita esplicitamente le fonti di ispirazione da cui ha attinto di volta in volta. Ma non sognatevi neanche un secondo di ascoltare un pezzo che già conoscete, perché il tutto è sempre rimescolato e, proprio come i blues della tradizione, rivive in una propria luce e in un contesto del tutto personale.
Si parte con "Dose of Power", un blues da vecchia locomotiva di quelli che ti sporcano la faccia di carbone e di cui non si capisce bene chi possa essere l'autore. Meglio così. Le sensazioni sono subito buone. Il suono, grazie soprattutto a una registrazione fatta in casa come le cose migliori, è materia bollente e basterebbe da solo a farci arrivare alla fine del disco.
Se il viaggio è senza tempo, si può raccogliere un pò dappertutto. E infatti le fonti di ispirazione non sono ricollegabili a un periodo solo.
Si passa dalle parti del Delta, con una sferragliante "You Gotta Move" (Fred McDowell), un'eterna, quanto difficile da riconoscere, "Stack'o Lee" (Mississippi John Hurt), e il Robert Johnson di "Preaching blues".
Si salta fino quasi ai giorni nostri con "Devil in the flesh" e "Bottom of the sea" della coppia Billy Childish - Dan Melchior, "Hammer me down" (Soledad Brothers) e i DM Bob and The Deficits (Two headed woman), lasciandosi per strada anche blues senza un autore (What will I do) per arrivare senza problemi a una versione indemoniata di "Free Speech for the dumb" addirittura dei Discharge (!). E c'è anche il tempo per un caffè (Coffee), messo su dai R'n'R Terrorists in una pausa delle registrazioni.
Il disco esce per l'encomiabile "Bubca Records", in edizione limitata di 200 copie numerate."Stolen blues" si può richiedere direttamente all'indirizzo dell'etichetta. Se siete interessati a organizzare concerti scrivete direttamente al gruppo a questo indirizzo.


giovedì 3 dicembre 2009

La cantina del rock 106: Road to Ruins Festival





Torna l'appuntamento con il "Road to Ruins festival", punto di riferimento per gli amanti del punk e di tutta quella musica ispirata all'attitudine do-it-yourself.
Il festival giunge alla sua nona edizione e porta nella Capitale nomi importanti della scena internazionale e italiana. A fronte di problemi logistici che hanno funestato l'organizzazione, saranno tredici le bands a far impennare la fredda temperatura del dicembre capitolino, con cinque serate tra chitarre distorte, ritmi incalzanti e vibrante rock'n'roll.
Si comincia martedì 8 dicembre all'Init con il ritorno sulle scene dei Germs, band di culto formatasi a Los Angeles nel 1977 con Darby Crash (voce), Pat Smear (chitarra), Lorna Doom (basso), e Don Bolles (batteria).
Tre anni di attività, una manciata di singoli e un solo disco in studio, una pietra miliare chiamata "GI" (Slash Records), ma un impatto dirompente sulla musica a venire. La band ha infatti il merito di aver trapiantato e sviluppato in modo nuovo e seminale i "germi" del punk inglese nel variegato filone dell'hardcore californiano.
Sono passati quasi trent'anni, Shane West è alla voce al posto del compianto Crash, morto di overdose nel dicembre 1980, e i Germs tornano dal vivo con una serata che si preannuncia ad alto tasso adrenalinico.
Il concerto sarà preceduto dalla proiezione del film biografico sulla band "What we do is secret", del regista Rodger Grossmann, con lo stesso West nel ruolo di Darby Crash.
Giovedì 10 al Mads in scena il "Road to Ruins r'n'r party" con gli americani di Seattle The Cute Leepers in veste di headliners. Capitanati da Steve E. Nix, già con The Briefs, affondano il proprio sound nel power pop, nel mod revival di fine '70 e nel punk rock.
Accanto al classico organico chitarra-basso-batteria, la band sfodera coriste in formazione fissa e non disdegna di inserire fiati negli arrangiamenti. A completare il cartellone i punk rockers abruzzesi One Trax Minds e i veterani romani Kill Time per una serata tutta da ballare.
Il giorno successivo il festival si sposta alla Locanda Atlantide con gli inglesi The Caravans, trio rockabilly di vecchia data e con una solida base nel punk inglese, e gli italiani The Rockin Bandits. Serata poi tutta da ballare con dj set e spettacoli.
Sabato 12 serata conclusiva del festival al Jailbreak di via Tiburtina con una vera e propria maratona musicale. A causa dei sopravvenuti problemi logistici saranno infatti ben sette le bands a dividersi lo stage.
Il pezzo forte della serata saranno i Superyob, combo inglese proveniente dalla south east londinese. In attività da quindici anni, il quartetto - Frankie Flame voce e piano, Dave Haystacks alle chitarre, Chipshop John al basso, Ace alla batteria - si muove tra mod e punk, con l'aggiunta di influenze oi! e glam. Per questa unica data italiana i Superyob presentano l'ultimo lavoro in studio "Quality Street".
Sul palco in successione: gli svedesi Double Knock Out dediti al punk rock da strada, le skin bands Pinta Facile da Roma e Roll Call dalla Sardegna, L'hardcore al fulmicotone dei Grand Theft Age, la Oi! band Automatica Aggregazione e i giovanissimi Feccia Hardcore.


Non mancate!


raveup@tiscali.it


06/43580034 - 349/8342300

 





sabato 28 novembre 2009

La cantina del rock 105: Gun Club




Di molti dei gruppi che amo non vedrò mai un concerto, non avrò la percezione dei suoni che si scaricano sul mio corpo o di una scarica di chitarra elettrica che mi scoppia nel cervello, non sarò tra il pubblico travolto da una bolgia di emozioni...
Non ho vissuto musicalmente gli anni '80 e non ero neanche nato quando uscì Fire of Love, mentre Miami è stato registrato che avevo pochi mesi.
Eppure ascolto i Gun Club come se fossero un gruppo che registra e suona adesso, non 25 anni fa. Forse perché il loro sound mi suona recente, mi suona attuale.
Contemporaneo.
I Gun Club nascono a Los Angeles alla fine degli anni '70 da quella mente folle di Jeffrey Lee Pierce che, radunando periodicamente e non senza difficoltà compagni di viaggio che puntualmente lo avrebbero poi abbandonato o che lui avrebbe allontanato senza una ragione, intraprende una folle e deragliante corsa, fatta di concerti, sbandate, cadute, kilometri, contraddizioni insanabili e melodie lancinanti.
Jeffrey Lee era annientato dalla bellezza del blues, dal delta del Mississippi e da quella che viene chiamata in genere tradizione musicale americana. A chi lo accompagnò nel viaggio per le autostrade della musica, aggiunse lo spirito punk che andava chiarendosi da qualche anno come un'istanza necessaria per approdare a qualcosa di nuovo e nello stesso tempo quanto mai vivo.
Lo hanno chiamato spesso punk blues: forse sarebbe meglio parlare di suono americano. Avere un repertorio, una tradizione che si è tramandata prima oralmente e poi su disco e viverla quotidianamente filtrandola attraverso il proprio vissuto e la propria esperienza.
Il blues, il country, il rock'n'roll, la psichedelia e altre mille rivoli centrifugati nel punk e ritrasmessi nel presente, come se fosse la cosà più semplice e la strada maestra da seguire.
Si narra che Jeffrey Lee abbia ereditato il rapporto con il diavolo da ben noti bluesman prima di loro e che assieme a Kid Congo Powers (Cramps, Nick Cave and Bad Seeds tra gli altri), abbia scritto le più belle pagine di blues bianco, sta di fatto che il cantante dei Gun Club è stato per lungo periodo l'erede e il propiziatore di questo fiume in piena che è il suono americano. Non facendo niente per esserlo, anzi sbagliando sempre tutto ciò che poteva sbagliare, senza redenzione nè prospettiva, ma capace di rinascere e mettere in musica tutto il suo tormento.
La storia dei Gun Club viene qui ripercorsa attraverso la loro musica, ascoltabile e percorribile senza nessuna pretesa di esaustività attraverso canzoni che non ne vogliono sapere di invecchiare.
La cantina del rock, che per coinvolgimenti personali si è già occupata dei Gun Club, torna a farlo per una puntata tematica dedicata alla band californiana, come atto d'amore incondizionato verso Jeffrey Lee e soci.
Buon ascolto

Bob


 


martedì 24 novembre 2009

La parola a Lev: Il blues



Spazio al primo intervento interamente pensato e scritto da un amico.
Lev, che qui si vede in una foto a New Orleans scattata lo scorso agosto, riflette a proposito del blues, delle sue origini e delle sue derivazioni.
Meraviglioso blues, fiume sui cui margini fiorisce rigogliosa la musica del secolo passato e su cui speriamo vada a insediarsi quella che verrà.
Quello che segue non è l'articolo di un critico nè ha pretese di esaustività. Si tratta solo un punto di vista sulla vicenda, un punto di vista documentato ma tuttavia personale.

Quando i Beatles registrarono "Roll Over Beethoven", non fu soltanto Beethoven ad essere chiamato in causa, ma soprattutto l'autore Chuck Berry.
Se i Rolling Stones suonavano "Confession the Blues", stavano confessando in realtà l'influenza di Walter Brown e BB. King, e quando gli Animals cantavano di un "Big Boss Man" si riferivano a Jimmy Reed.
Il "Blues in the Bottle" dei Lovin' Spoonful era di Lightnin Hopkins, mentre fu un nero del Mississippi, Bukka White, ad ispirare a Bob Dylan la sua "Fixin to Die".
Questo brevi considerazioni riguardano il blues e la storia di una minoranza segregata divenuta ispiratrice della musica R'n'R' attraverso la società intera.
Quando i cantanti di blues potevano essere ascoltati in qualsiasi cortile del Sud, e i portici delle botteghe e le capanne delle piantagioni risuonavano dei suoni pigri delle chitarre, erano pochi quelli che si soffermavano a considerare la natura di quella musica.
I blues singers facevano parte del panorama circostante, e non venivano notati più di quanto lo fossero i muli che trascinavano i carri di cotone sgranato.
Ma questo non deve stupire, dal momento in cui è nella natura della musica avere rapporti strettissimi con i prodotti del lavoro dell'uomo e non poter essere separata dalle forme del vivere quotidiano.
Basti pensare alla quantità di bluesmen ciechi che hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia del blues, impossibilitati a guadagnarsi il pane maneggiando una zappa o un'aratro, ricorrevano alla musica come mezzo di sopravvivenza.
Di quei tempi ci sono stati trasmessi solo alcuni frammenti occasionali.
Tendenzialmente il blues veniva guardato con ostilità considerato una degenerazione; nessuno si diede la briga di considerare questa "musica", non ci sono testimoni se non gli stessi blues singers.
Alcuni vedono il blues come una musica di protesta certi altri come un compiacimento di autocommiserazione; altri ne considerano fondamentalmente l'influenza che ha avuto per l'evolversi del jazz e della musica rock.
Da qualsiasi punto di vista lo si consideri, il blues è contemporaneamente uno stato d'animo e una musica che gli da voce.
E' il lamento di chi è abbandonato, un grido d'indipendenza, l'impotenza dell'uomo nel pieno delle sue forze, la rabbia del frustrato, il riso amaro del fatalista.
E' l'agonia dell'indecisione, la disperazione del disoccupato, l'angoscia di chi è stato spogliato di tutto, è lo spirito caustico del cinico.
Il blues è l'espressione privata dell'individuo che trova nella musica un veicolo per i propri sentimenti, la musica di una frangia ristretta all'interno di un gruppo isolato
Ovviamente il blues era anche divertimento, musica per bere e ballare per sfogarsi dopo le fatiche del duro lavoro settimanale.
La cosa certa è che il blues trova i suoi rappresentanti in seno a una comunità popolare, sia nel profondo sud contadino, che nei ghetti congestionati di una città industriale.
Il blues è il canto di chi s'improvvisa chitarrista in un retrobottega, il frastuono di un locale fumoso di periferia, lo show di una compagnia ambulante..il blues è tutte queste cose tutta questa gente e molto di più ma soprattutto l'ispirazione di un uomo apprezzato solo dalla sua comunità, e a volte forse solo da se stesso.
Quindi la storia del blues è la storia di donne e uomini umili, oscuri, modesti, è la storia di nomi di cui non rimane nulla se non qualche minuto di registrazione...la storia di uomini "veri" e di qualcosa che non si può vendere e comprare per niente e nessuno.

Lev

giovedì 19 novembre 2009

La cantina del rock



La cantina del rock è un programma radio di musica rock'n'roll – garage, punk, surf e psichedelica – andato in onda per la prima volta il 26 ottobre del 2006 sui 99.4 mhz di Radio Facoltà di Frequenza a Siena.
Ogni settimana, inizialmente il giovedì e poi il martedì, eravamo in diretta con puntate di un'ora, sparando musica a tutto volume e chiacchierando al telefono con gruppi, etichette discografiche, organizzatori di concerti e festival, giornalisti o semplici appassionati.
Fu chiara dall'inizio la natura underground della cosa: dare spazio a realtà al di fuori del carrozzone chiamato musica indipendente, parlare di autoproduzione e di autodistribuzione, riscoprire gruppi underground del passato, chiacchierare con i protagonisti della musica, rifiutando il concetto di musicista/artista da palco e valorizzando le esperienze dal basso, poco considerate mediaticamente, ma di grande spessore musicale.
In una sola espressione, Do-it-Yourself.
Era ottobre del 2006 e stavo scrivendo la tesi di laurea, suonavo il basso negli Ultra Twist e bazzicavo la radio da qualche anno. A Siena come sempre arrivava l'inverno, come sempre c'era quella umidità che se ne va ad aprile, come sempre non c'era un cazzo da fare la sera.
Pensammo a un programma che sarebbe andato fino all'estate del 2007. Io andavo in onda e ululavo dai microfoni della radio, Lev faceva i manifesti delle puntate. Insieme prendevamo contatti, insieme, con un registratore a cassetta più morto che vivo, andavamo ai concerti a intervistare i gruppi che passavano per la Toscana.
Ogni puntata, veniva registrata, postata sul myspace e archiviata sul sito, con la possibilità di scaricarsela e portarsela dietro. La cantina diventava una radiozine, che al posto della scrittura, dell'inchiostro e dell'impaginazione, diffondeva musica, veicolava una cultura, parlava e documentava attraverso un microfono, un mixer, l'aria, la rete.
Nel febbraio del 2009, dopo 103 puntate andate in onda, decine di ore di musica, interviste, concerti e festival seguiti, moltissimi organizzati a Siena, la Cantina ha sospeso le trasmissioni.
Non senza una rabbia enorme.
L'Università di Siena, dimostrando una miopia degna solo di una istituzione capace di dilapidare un patrimonio di anni ed esperienze, ha chiuso Facoltà di Frequenza con il pretesto di un trasloco degli studi della radio. Un trasloco che di fatto è rimasto insabbiato e che crea l'anomalia per cui una radio non c'è, ma continua a trasmettere musica senza più programmi e senza più persone.
Ma lasciamo perdere.
Ci siamo fermati e molte cose sono cambiate nel frattempo.
Sono passati tre anni da quel primo giorno di ottobre, gli Ultra Twist non esistono più,
io mi sono laureato e non vivo più a Siena.
In questi giorni, ma la cosa era nell'aria da un po' di tempo, abbiamo deciso di ricominciare a mandare rock'n'roll e a documentare tutto ciò che si agita dal basso e che viene fuori con concerti, 7 pollici, cd autoprodotti, cassette e quant'altro.
Per il momento la Cantina andrà solo in rete e lo studio della radio sarà composto da un portatile, un microfono, una scheda audio e un giradischi. Le puntate saranno ascoltabili e scaricabili dal myspace e dal sito, dove sarà possibile portare via tutta la vecchia programmazione andata in onda, ma contiamo in breve di ricominciare una nuova avventura in FM.
Intanto è disponibile la puntata del ritorno, la numero 104, ascoltabile direttamente da qui.




mercoledì 11 novembre 2009

La mia America



Lo scorso mese di agosto ho percorso gli Stati Uniti da una costa all'altra, in tour con i miei Ultra Twist. Stipati In un minivan da otto posti, con i ragazzi californiani dei Pipsqueak, abbiamo viaggiato per più di sedicimila km da San Francisco a New York con ritorno nella Bay Area, suonando tutte le sere e spingendoci nel cuore dell'America. Pochi giorni dopo essere rientrato, sollecitato dal mio grande amico Joel Weickegnant, ho scritto quanto segue sulla percezione del vasto spazio americano visto con gli occhi di un europeo.


La prima cosa che colpisce è la distanza. Se vieni dal Vecchio Continente sai che non puoi fare che qualche centinaio di km perché cambi tutto: lingua, cartelli stradali, talvolta anche credi, tradizioni e usanze. Fino a qualche anno fa trovavi le guardie ai confini e la tua moneta non valeva più nulla oltre quella barriera chiamata dogana. Succede ancora in alcuni posti.
Qui la strada è dritta, perennemente dritta. Cambiano gli Stati della Confederazione e i fusi orari, ad Atlanta si fa giorno e a LA è notte fonda. La strada no. Sei sulla I-10 e per quel che può sembrare puoi rimanerci anche dieci giorni, senza avvertire cambiamenti, solo andando dritto, seguendo la scansione delle miglia che si azzerano a ogni cambiamento di Stato.
In un giorno e mezzo copriamo tre o quattro volte la lunghezza della superficie dell’Italia a bordo di uno Chevrolet Astro del ’99, un miracolo dell’industria automobilistica che ci farà percorrere sedicimila km in un mese, un minivan oscenamente carico di persone, bagagli, sogni che diventano obiettivi ogni giorno di più.
Già, perché se sei Italiano sogni l’America. La conosci da sempre e non ci sei mai stato. Sin da bambino ne respiri la cultura: sei inondato dalla musica, dal cinema, dalla letteratura e crescendo te ne nutri e li interiorizzi. Aspetti nobili questi, a cui affiancare le brutture importate, dal centro commerciale - ma che cazzo ti serve se hai un centro storico e una piazza dove incontrare la gente? - a McDonald e a diavolerie di questo genere.
Si ma l’America la sogni, sogni i taxi gialli di New York, la statua della Libertà, i grattacieli, il West con gli Indiani, l’Oceano e il surf, le ragazze così come le hai viste in Tv. E soprattutto sogni che là si fa fortuna, si fanno i soldi. Ed hai almeno un parente, qualcuno che magari si chiama proprio come te e 100 anni prima è arrivato su una nave ed è diventato ricchissimo.
Sogni le città e a un certo punto esci da un’autostrada e ti ci ritrovi dentro, morto di stanchezza ma con gli occhi curiosi di un bambino. E gli Americani sono Americani in California e a New Orleans, e parlano più o meno la stessa lingua a tremila miglia di distanza, hanno lo stesso presidente, problemi simili – la crisi che si mangia il lavoro – e le stesse grandi paure, un tessuto emotivo che li accomuna e che li rende orgogliosamente Americani.
Poi c’è il mito della strada, del vento e dei paesaggi.
Tutto vero.
In Europa la strada è una terribile seccatura, una perdita di tempo necessaria per arrivare in un posto, vedere una città, visitare un museo. Qui i posti da raggiungere per i concerti sono troppo lontani e per non perdere la speranza vivi il tuo percorso come una continua fonte di attrazione, uno stimolo per gli occhi e per la mente, un modo per ascoltare buona musica, per riflettere e per cercare di comprendere i tuoi compagni di viaggio, che per un mese fileranno diritto nel loro inglese di Orange County, senza preoccuparsi se tu capisca o meno. Meglio così, l’italiano tornerà a casa fiero delle sue conquiste linguistiche guadagnate sul campo!
Ma torniamo a noi
Miglia e miglia per questo che è il sistema nervoso dell’America, con le sue arterie, le sue vene e i suoi capillari, formati dalle freeways, dalle highways e dalle routes, che ti portano sempre più lontano, ma sempre immerso in spazi sconfinati, diversi e irresistibili: il deserto, i canyons, l’azzurro del cielo a contrastare l’ocra e il marrone del terreno, la sterminata profondità di campo dei tramonti. E poi le foreste a perdita d’occhio, in cui la strada si è ritagliata un piccolo spazio in un immenso polmone verde.
A volte sbagli, fidandoti troppo della mappa, e ti perdi tra le montagne e un fiume ti accompagna inesorabilmente. Valichi riserve indiane e antichi villaggi di minatori da qualche parte in Idaho all’alba e ti sembra che non tornerai mai più da là, girando all’infinito in quei paradisi senza tempo.
Invece a un certo punto la strada torna ad allargarsi, ti porta a correre per poi morire sulla costa Ovest. E in un pomeriggio di San Francisco senza foschia, sulle Twin Peaks, mentre il vento del Pacifico ti taglia in due e la città si distende nella Baia, realizzi che tu in quel sistema nervoso vi hai viaggiato attraverso, nutrendoti per due volte da una costa all’altra di quell’ebbrezza quotidiana che ti ha portato verso posti, facce, concerti così intensi che fai fatica ad analizzarli singolarmente ma che sono un tutt’uno con la tua pelle e fanno parte ora di quel vasto bagaglio di vite vissute, percorsi, incidenti, sogni e illusioni che gli uomini chiamano esperienza.

venerdì 6 novembre 2009

Benvenuti nel mio blog!!


Dopo anni passati a disperdere nell'etere parole & rock'n'roll dai microfoni di Radio Facoltà di Frequenza, e nella spasmodica attesa di ricominciare a farlo, ho deciso di avere uno spazio dove parlare liberamente di tutto ciò che mi viene in mente o che mi colpisce.

E' una decisione che arriva dopo molto pensare. Interrogativi angoscianti ritardavano questo momento. E' giusto che un logorroico insostenibile come il sottoscritto abbia un blog senza rischiare di intasarlo di discorsi? Può un soggetto abituato alla sonniloquenza più accanita, manifestata talvolta in lingue note e molto più spesso in farfugli senza senso, avere la possibilità di scrivere ciò che gli passa per la testa, nell'ordine di pensieri che non decollino in digressioni allucinanti...
dov'ero?
mi sono perso
Ah no!
Eccola. Non c'è pericolo, mi sono detto.
Tenere un blog è un'operazione che richiede tempo e lo starsene appollaiati sul pc, evitando o ritardando birre, schitarrate, magnate colossali, concerti passeggiate e altre milionate di cose.
Avrà per questo una parte non preponderante sul mio tempo.
Parlerò delle mie passioni, di musica, viaggi, miti, del Bari e delle cose che mi fanno incazzare di brutto senza mediazioni e raccoglierò pareri, commenti e suggerimenti di amici, conoscenti e perfetti sconosciuti.
Parlerò di radio e di rock'n'roll, di concerti e dischi e di tutta la musica che mi accende una passione.

Rock on!